lunedì 21 dicembre 2009
On 11:44 by SA DEFENZA No comments
innovazione e industria, politiche da ritrovare
Mario Pianta
ilmanifesto.it
Il tasso di disoccupazione al 10% negli Stati Uniti e in molti paesi europei mostra quanto sia ancora grave la crisi. Quale sarà il volto dell'economia reale, delle strutture produttive, dopo la fine della recessione? I protagonisti - le grandi imprese - hanno licenziato, chiuso impianti e trasferito produzioni all'estero, hanno tagliato investimenti e ricerca, aperto la caccia alle acquisizioni di imprese in difficoltà, concentrato le attività nei centri produttivi maggiori e nei settori del core business. Queste strategie, nell'industria come nei servizi, creano ostacoli alla ripresa e mettono in pericolo economie locali, reti di subfornitura, occupazione e redditi.
Sono problemi comuni ai paesi europei, ma particolarmente seri per gli anelli più deboli delle catene produttive, come l'Italia, dove da dieci anni la produttività del lavoro è ferma. Ad aggiornare quest'immagine ci sono i nuovi dati Istat sulle «Misure di produttività», che registrano, dopo variazioni del -0,3% in media tra il 2000 e il 2004, un +0,2% tra il 2004 e il 2008: i livelli di produttività del lavoro sono sostanzialmente fermi a quelli di dieci anni fa, e la crisi farà scivolare più in basso i dati del 2009. Tutto questo a fronte di tassi di crescita ben più sostenuti non solo nei nuovi paesi industriali, ma anche nei vecchi paesi del Nord Europa e in Germania.
Il «decennio perduto» della produttività italiana è il risultato della scelta di lasciar fare alle imprese (o ai «miracoli» dei distretti), confidando che decisioni individuali di mercato potessero assicurare non solo maggior efficienza di breve periodo nell'allocazione delle risorse, ma anche sagge scelte di lungo termine nello sviluppo di nuove tecnologie, investimenti e produzioni. Le politiche industriali e dell'innovazione - che avevano avuto un ruolo centrale nello sviluppo dell'Europa del dopoguerra - sono state dimenticate, travolte dal pensiero unico liberista. Il risultato è stato soltanto il declino industriale. L'Italia, e buona parte dell'Europa, si ritrovano su traiettorie tecnologiche tradizionali, con vecchi prodotti, scarsa ricerca e innovazione, una bassa dinamica della domanda e un pesante impatto ambientale delle produzioni.
Le decisioni sul futuro della struttura produttiva italiana ed europea devono essere riportate all'interno della sfera pubblica. Una nuova generazione di politiche può superare i «fallimenti» del passato e introdurre interventi creativi e selettivi. Gli obiettivi delle politiche industriali e dell'innovazione dovrebbero favorire lo sviluppo di conoscenze, tecnologie e attività economiche che migliorino le prestazioni economiche, le condizioni sociali e la sostenibilità ambientale. Favorendo attività e settori caratterizzati da processi di apprendimento, rapido cambiamento tecnologico e forte crescita di domanda e produttività. Un elenco preliminare delle attività da privilegiare può comprendere la conoscenza, l'informazione e comunicazione, l'ambiente e le energie rinnovabili, la salute e il welfare.
Sul sito www.sbilanciamoci.info proponiamo forme e contenuti che le politiche industriali e per l'innovazione potrebbero assumere. Per fermare la scomparsa di attività produttive, per accelerare l'uscita dalla recessione, per spostarsi - dopo Copenhagen - su una traiettoria di sviluppo sostenibile.
Mario Pianta
ilmanifesto.it
Il tasso di disoccupazione al 10% negli Stati Uniti e in molti paesi europei mostra quanto sia ancora grave la crisi. Quale sarà il volto dell'economia reale, delle strutture produttive, dopo la fine della recessione? I protagonisti - le grandi imprese - hanno licenziato, chiuso impianti e trasferito produzioni all'estero, hanno tagliato investimenti e ricerca, aperto la caccia alle acquisizioni di imprese in difficoltà, concentrato le attività nei centri produttivi maggiori e nei settori del core business. Queste strategie, nell'industria come nei servizi, creano ostacoli alla ripresa e mettono in pericolo economie locali, reti di subfornitura, occupazione e redditi.
Sono problemi comuni ai paesi europei, ma particolarmente seri per gli anelli più deboli delle catene produttive, come l'Italia, dove da dieci anni la produttività del lavoro è ferma. Ad aggiornare quest'immagine ci sono i nuovi dati Istat sulle «Misure di produttività», che registrano, dopo variazioni del -0,3% in media tra il 2000 e il 2004, un +0,2% tra il 2004 e il 2008: i livelli di produttività del lavoro sono sostanzialmente fermi a quelli di dieci anni fa, e la crisi farà scivolare più in basso i dati del 2009. Tutto questo a fronte di tassi di crescita ben più sostenuti non solo nei nuovi paesi industriali, ma anche nei vecchi paesi del Nord Europa e in Germania.
Il «decennio perduto» della produttività italiana è il risultato della scelta di lasciar fare alle imprese (o ai «miracoli» dei distretti), confidando che decisioni individuali di mercato potessero assicurare non solo maggior efficienza di breve periodo nell'allocazione delle risorse, ma anche sagge scelte di lungo termine nello sviluppo di nuove tecnologie, investimenti e produzioni. Le politiche industriali e dell'innovazione - che avevano avuto un ruolo centrale nello sviluppo dell'Europa del dopoguerra - sono state dimenticate, travolte dal pensiero unico liberista. Il risultato è stato soltanto il declino industriale. L'Italia, e buona parte dell'Europa, si ritrovano su traiettorie tecnologiche tradizionali, con vecchi prodotti, scarsa ricerca e innovazione, una bassa dinamica della domanda e un pesante impatto ambientale delle produzioni.
Le decisioni sul futuro della struttura produttiva italiana ed europea devono essere riportate all'interno della sfera pubblica. Una nuova generazione di politiche può superare i «fallimenti» del passato e introdurre interventi creativi e selettivi. Gli obiettivi delle politiche industriali e dell'innovazione dovrebbero favorire lo sviluppo di conoscenze, tecnologie e attività economiche che migliorino le prestazioni economiche, le condizioni sociali e la sostenibilità ambientale. Favorendo attività e settori caratterizzati da processi di apprendimento, rapido cambiamento tecnologico e forte crescita di domanda e produttività. Un elenco preliminare delle attività da privilegiare può comprendere la conoscenza, l'informazione e comunicazione, l'ambiente e le energie rinnovabili, la salute e il welfare.
Sul sito www.sbilanciamoci.info proponiamo forme e contenuti che le politiche industriali e per l'innovazione potrebbero assumere. Per fermare la scomparsa di attività produttive, per accelerare l'uscita dalla recessione, per spostarsi - dopo Copenhagen - su una traiettoria di sviluppo sostenibile.
giovedì 3 dicembre 2009
On 07:14 by SA DEFENZA No comments
Marina Forti
ilmanfesto.it
I rubinetti sono rari, negli slum operai sorti attorno al vecchio stabilimento della Union Carbide, della zona industriale di Bhopal, India: l'acqua si attinge per lo più da fontane pubbliche che pescano da pozzi, ma è contaminata. La cosa è nota da tempo, e due studi pubblicati di recente lo confermano: l'acqua pescata nel raggio di alcuni chilometri dalla fabbrica contiene sostanze tossiche in quantità di molto superiori alle soglie di legge.
Uno è lo studio pubblicato dal Centre for Science and Environment (Cse) di New Delhi: ha trovato pesticidi in concentrazioni 40 volte superiori alle norme di sicurezza indiane nell'acqua attinta a 3 chilometri dallo stabilimento. Poi c'è l'indagine del gruppo di studio britannico Bhopal Medical Appeal: ha trovato sostanze cancerogene come il carbonio tetrafluoruro in percentuali fino a 2.400 volte superiori alle linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità. La fonte della contaminazione non è un mistero: sta nella carcassa arrugginita del vecchio stabilimento di fertilizzanti e pesticidi, in disuso ormai da 25 anni.
Già, è passato un quarto di secolo dalla notte che tutti a Bhopal ricordano come l'inferno. Era la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984. L'impianto si era surriscaldato; una cisterna esplose lasciando uscire 40 tonnellate di sostanze chimiche. Il gas, «sparato» ad alta pressione, investì in pieno la borgata di Jayaprakash Nagar, proprio di fronte ai cancelli, e altri slum limitrofi. Migliaia di persone sono morte soffocate quella notte stessa - 1.600 secondo il conto ufficiale, quasi 6.000 per le organizzazioni che si occupano delle vittime. Molti di più sono morti in modo lento nei mesi e anni seguenti, consumati da tumori ai polmoni e altre malattie. I bilancio ha superato ormai le ventimila vittime. Per questo Bhopal, capitale dello stato di Madhya Pradesh, nell'India centrale, oggi sta all'industria chimica come Hiroshima sta all'olocausto nucleare.
Il punto è che dopo tanti anni, l'eredità della «gas tragedy» resta pesante. Chi è sopravvissuto al gas convive con tumori, malattie respiratorie, nervose. Molti hanno perso i parenti. Nel 1989 il governo dell'India, come unico rappresentante delle vittime in un processo contro Union Carbide accettò un patteggiamento: l'impresa versava 470 milioni di dollari come risarcimento. L'accordo è stato molto criticato. Sia perché il risarcimento era calcolato su 3.000 defunti e centomila sopravvissuti - ma i tribunali hanno poi riconosciuto oltre 574mila persone «gas affected»: cinque volte di più. Vicenda penosa, i risarcimenti: tra il '95 e il '96 le vittime riconosciute hanno ricevuto una tantum 15mila rupie ciascuno, circa 400 dollari di allora. Nessuna pensione per chi era rimasto invalido. E poi, con quel patteggiamento Union Carbide chiudeva le sue responsabilità. Solo più tardi la «Campagna internazionale per la giustizia a Bhopal» ha aperto presso il tribunale di New York una causa legale contro Union Carbide - che nel 2001 è stata acquisita da Dow Chemical, escluso però il vecchio stabilimento di Bhopal, che ora appartiene al governo indiano. L'eredità è pesante anche perché in quello stabilimento arrugginito restano migliaia di tonnellate di residui tossici esposti alle intemperie, mentre altre tonnellate di reflui sono stoccati in vasche mal isolate: sono quelli che contaminano l'acqua. Ma la responsabilità della bonifica viene rimpallata tra Dow Chemical, governo del Madhya Pradesh, governo centrale. Mentre decine di migliaia di abitanti continuano ad assorbire veleni: ma non rientrano tra le «gas affected people»
ilmanfesto.it
I rubinetti sono rari, negli slum operai sorti attorno al vecchio stabilimento della Union Carbide, della zona industriale di Bhopal, India: l'acqua si attinge per lo più da fontane pubbliche che pescano da pozzi, ma è contaminata. La cosa è nota da tempo, e due studi pubblicati di recente lo confermano: l'acqua pescata nel raggio di alcuni chilometri dalla fabbrica contiene sostanze tossiche in quantità di molto superiori alle soglie di legge.
Uno è lo studio pubblicato dal Centre for Science and Environment (Cse) di New Delhi: ha trovato pesticidi in concentrazioni 40 volte superiori alle norme di sicurezza indiane nell'acqua attinta a 3 chilometri dallo stabilimento. Poi c'è l'indagine del gruppo di studio britannico Bhopal Medical Appeal: ha trovato sostanze cancerogene come il carbonio tetrafluoruro in percentuali fino a 2.400 volte superiori alle linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità. La fonte della contaminazione non è un mistero: sta nella carcassa arrugginita del vecchio stabilimento di fertilizzanti e pesticidi, in disuso ormai da 25 anni.
Già, è passato un quarto di secolo dalla notte che tutti a Bhopal ricordano come l'inferno. Era la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984. L'impianto si era surriscaldato; una cisterna esplose lasciando uscire 40 tonnellate di sostanze chimiche. Il gas, «sparato» ad alta pressione, investì in pieno la borgata di Jayaprakash Nagar, proprio di fronte ai cancelli, e altri slum limitrofi. Migliaia di persone sono morte soffocate quella notte stessa - 1.600 secondo il conto ufficiale, quasi 6.000 per le organizzazioni che si occupano delle vittime. Molti di più sono morti in modo lento nei mesi e anni seguenti, consumati da tumori ai polmoni e altre malattie. I bilancio ha superato ormai le ventimila vittime. Per questo Bhopal, capitale dello stato di Madhya Pradesh, nell'India centrale, oggi sta all'industria chimica come Hiroshima sta all'olocausto nucleare.
Il punto è che dopo tanti anni, l'eredità della «gas tragedy» resta pesante. Chi è sopravvissuto al gas convive con tumori, malattie respiratorie, nervose. Molti hanno perso i parenti. Nel 1989 il governo dell'India, come unico rappresentante delle vittime in un processo contro Union Carbide accettò un patteggiamento: l'impresa versava 470 milioni di dollari come risarcimento. L'accordo è stato molto criticato. Sia perché il risarcimento era calcolato su 3.000 defunti e centomila sopravvissuti - ma i tribunali hanno poi riconosciuto oltre 574mila persone «gas affected»: cinque volte di più. Vicenda penosa, i risarcimenti: tra il '95 e il '96 le vittime riconosciute hanno ricevuto una tantum 15mila rupie ciascuno, circa 400 dollari di allora. Nessuna pensione per chi era rimasto invalido. E poi, con quel patteggiamento Union Carbide chiudeva le sue responsabilità. Solo più tardi la «Campagna internazionale per la giustizia a Bhopal» ha aperto presso il tribunale di New York una causa legale contro Union Carbide - che nel 2001 è stata acquisita da Dow Chemical, escluso però il vecchio stabilimento di Bhopal, che ora appartiene al governo indiano. L'eredità è pesante anche perché in quello stabilimento arrugginito restano migliaia di tonnellate di residui tossici esposti alle intemperie, mentre altre tonnellate di reflui sono stoccati in vasche mal isolate: sono quelli che contaminano l'acqua. Ma la responsabilità della bonifica viene rimpallata tra Dow Chemical, governo del Madhya Pradesh, governo centrale. Mentre decine di migliaia di abitanti continuano ad assorbire veleni: ma non rientrano tra le «gas affected people»
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