domenica 19 aprile 2009
On 15:22 by SA DEFENZA No comments
dae Massimo Fini
Lévi-Strauss ha compiuto cent'anni. Per questo, e oserei dire solo per questo, dopo decenni di oblio, si è tornati a parlare di lui. Claude Lévi Strauss, singolare figura di filosofo, antropologo, strutturalista, linguista, ha infatti la grave colpa, che condivide con un altro grande pensatore contemporaneo, anch'esso oscurato, Karl Polanyi, interessato particolarmente al versante economico, a una società che non sia, da questo punto di vista, né marxista né liberista, di non poter essere catalogato né di destra né di sinistra. Colpa che neanche i suoi cent'anni hanno potuto lavare se è vero che in questi mesi di celebrazioni tutto si è detto di lui tranne che fermarsi sulla parte più eterodossa e attuale del suo pensiero: il relativismo culturale.
Il relativismo senza aggettivi, filosofico, ha una lunga tradizione che va da Montaigne a Voltaire a Nietzsche all'empirio-criticismo di Mach e Avenarius per arrivare fino alle ultime conclusioni della fisica moderna. Il primo a trasferire questa concezione in campo sociale, politico ed etico è stato Oswald Spengler affermano che tutti principi morali e religiosi e tutti i valori hanno un significato solo nell'ambito e per la durata della civiltà che li ha elaborati e praticati.
L'apporto originale di Lévi-Strauss sta nell'aver considerato ogni cultura come un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti strettamente collegati fra loro (come in una lingua), per cui una qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si può cancellare o estrapolare dalle culture “altre” gli aspetti che non ci piacciono - che è l'arrogante pretesa che domina oggi in Occidente - senza modificare profondamente tutto il sistema e quasi sempre farne crollare l'impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intervento occidentale nelle società del cosiddetto Terzo Mondo e in quelle ancor più arcaiche e primitive le ha disgregate provocando sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e mostruosi e alla fine ha, di fatto, distrutto quelle civiltà. Come è avvenuto per l'Islam se, sotto la pressione ideologica e armata dell'Occidente, il ruolo della donna musulmana fosse omologato a quello che ha da noi.
Ma Lévi-Strauss rifiuta anche quella particolare forma dello storicismo che è l'evoluzionismo secondo il quale le società partendo dal semplice (o dall'apparentemente semplice) e andando verso il più complesso, tenderebbero a un unico fine e a un unico modello al cui culmine c'è, naturalmente, il modello di sviluppo occidentale quale è oggi. È assurdo, dice Lévi-Strauss, fare di una società «uno stadio dello sviluppo di un'altra società». Si tratta semplicemente di società diverse, che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella natura umana. Quelle tradizionali sono tendenzialmente statiche e privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito dell'efficienza economica e tecnologica. Invece le società “calde”, come le chiama Lévi-Strauss, a cui la nostra appartiene, sono dinamiche e scelgono l'efficienza e lo sviluppo economico a danno dell'equilibrio dato che «producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose contro le quali i “primitivi” si premuniscono e forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo».
Ed è qui che il discorso di Lévi-Strauss si fa attualissimo e diventa per noi particolarmente interessante. Per due motivi, sostanzialmente. Perché, a due secoli e mezzo dalla Rivoluzione industriale, usiamo constatare quale disagio acutissimo abbia provocato nelle nostre vite, in termini di stress, di angoscia, di tenuta nervosa, di depressione, di anomia, il forsennato dinamismo, l'assurda velocità, del nostro modello di sviluppo, rompendo oltretutto i rapporti fra gli uomini e gli stessi nuclei costitutivi dell'essere umano, privandolo dei suoi istinti, della sua vitalità, della sua essenza. E questa è la ragione principale del nostro antimodernismo e della nostra battaglia.
Ma c'è una ragione, per così dire “esterna”, che è quasi altrettanto importante. Per Lévi-Strauss, e per noi, non esistono “culture superiori”. Esistono solo culture diverse, ognuna col suo proprio senso. Per questo difendiamo con forza il principio dell'autodeterminazione dei popoli contro la pretesa dell'Occidente della “reductio ad unum”, cioè a se stesso, dell'intero esistente, col pretesto di una superiorità culturale che non è che una variante del razzismo classico, di nazistica memoria, peggiore perché più subdolo, più ipocrita e più devastante perché non si accontenta di conquistare territori e popoli, vuole prendere le loro anime (uno degli slogan con cui l'Occidente tenta di legittimare la sua presenza armata in Afghanistan è che dobbiamo «conquistare i cuori e le menti» degli afgani). Ma il rispetto delle altre culture non ha, per noi, solo radici di principio. L'omologazione del mondo ad un unico modello sarebbe mortale, nel senso letterale del termine. Perché come dice la saggezza popolare che abbiamo perduto «il sale della vita sta nella diversità»
Lévi-Strauss ha compiuto cent'anni. Per questo, e oserei dire solo per questo, dopo decenni di oblio, si è tornati a parlare di lui. Claude Lévi Strauss, singolare figura di filosofo, antropologo, strutturalista, linguista, ha infatti la grave colpa, che condivide con un altro grande pensatore contemporaneo, anch'esso oscurato, Karl Polanyi, interessato particolarmente al versante economico, a una società che non sia, da questo punto di vista, né marxista né liberista, di non poter essere catalogato né di destra né di sinistra. Colpa che neanche i suoi cent'anni hanno potuto lavare se è vero che in questi mesi di celebrazioni tutto si è detto di lui tranne che fermarsi sulla parte più eterodossa e attuale del suo pensiero: il relativismo culturale.
Il relativismo senza aggettivi, filosofico, ha una lunga tradizione che va da Montaigne a Voltaire a Nietzsche all'empirio-criticismo di Mach e Avenarius per arrivare fino alle ultime conclusioni della fisica moderna. Il primo a trasferire questa concezione in campo sociale, politico ed etico è stato Oswald Spengler affermano che tutti principi morali e religiosi e tutti i valori hanno un significato solo nell'ambito e per la durata della civiltà che li ha elaborati e praticati.
L'apporto originale di Lévi-Strauss sta nell'aver considerato ogni cultura come un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti strettamente collegati fra loro (come in una lingua), per cui una qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si può cancellare o estrapolare dalle culture “altre” gli aspetti che non ci piacciono - che è l'arrogante pretesa che domina oggi in Occidente - senza modificare profondamente tutto il sistema e quasi sempre farne crollare l'impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intervento occidentale nelle società del cosiddetto Terzo Mondo e in quelle ancor più arcaiche e primitive le ha disgregate provocando sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e mostruosi e alla fine ha, di fatto, distrutto quelle civiltà. Come è avvenuto per l'Islam se, sotto la pressione ideologica e armata dell'Occidente, il ruolo della donna musulmana fosse omologato a quello che ha da noi.
Ma Lévi-Strauss rifiuta anche quella particolare forma dello storicismo che è l'evoluzionismo secondo il quale le società partendo dal semplice (o dall'apparentemente semplice) e andando verso il più complesso, tenderebbero a un unico fine e a un unico modello al cui culmine c'è, naturalmente, il modello di sviluppo occidentale quale è oggi. È assurdo, dice Lévi-Strauss, fare di una società «uno stadio dello sviluppo di un'altra società». Si tratta semplicemente di società diverse, che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella natura umana. Quelle tradizionali sono tendenzialmente statiche e privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito dell'efficienza economica e tecnologica. Invece le società “calde”, come le chiama Lévi-Strauss, a cui la nostra appartiene, sono dinamiche e scelgono l'efficienza e lo sviluppo economico a danno dell'equilibrio dato che «producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose contro le quali i “primitivi” si premuniscono e forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo».
Ed è qui che il discorso di Lévi-Strauss si fa attualissimo e diventa per noi particolarmente interessante. Per due motivi, sostanzialmente. Perché, a due secoli e mezzo dalla Rivoluzione industriale, usiamo constatare quale disagio acutissimo abbia provocato nelle nostre vite, in termini di stress, di angoscia, di tenuta nervosa, di depressione, di anomia, il forsennato dinamismo, l'assurda velocità, del nostro modello di sviluppo, rompendo oltretutto i rapporti fra gli uomini e gli stessi nuclei costitutivi dell'essere umano, privandolo dei suoi istinti, della sua vitalità, della sua essenza. E questa è la ragione principale del nostro antimodernismo e della nostra battaglia.
Ma c'è una ragione, per così dire “esterna”, che è quasi altrettanto importante. Per Lévi-Strauss, e per noi, non esistono “culture superiori”. Esistono solo culture diverse, ognuna col suo proprio senso. Per questo difendiamo con forza il principio dell'autodeterminazione dei popoli contro la pretesa dell'Occidente della “reductio ad unum”, cioè a se stesso, dell'intero esistente, col pretesto di una superiorità culturale che non è che una variante del razzismo classico, di nazistica memoria, peggiore perché più subdolo, più ipocrita e più devastante perché non si accontenta di conquistare territori e popoli, vuole prendere le loro anime (uno degli slogan con cui l'Occidente tenta di legittimare la sua presenza armata in Afghanistan è che dobbiamo «conquistare i cuori e le menti» degli afgani). Ma il rispetto delle altre culture non ha, per noi, solo radici di principio. L'omologazione del mondo ad un unico modello sarebbe mortale, nel senso letterale del termine. Perché come dice la saggezza popolare che abbiamo perduto «il sale della vita sta nella diversità»
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