martedì 28 aprile 2009
Si s'origra paras a su entu
in mesu de chercos seculares
in percas, in costeras, in nuraghes,
in pinna de sos montes de Sardigna
da-e monte Rasu a Limbara
Gonare e Gennargentu,
intendes prantu, suspiru e lamentu
de animas kenza pasu, in turmentu,
ch'invocan zustissia e consolu.
(Tina Giudice Marras)
a trumas sun andende
che masones de lupos urulende
in sa terra prinza 'e terrore.
in sas intragnas zughet ranchidore,
in sos trainos sambene no abba.
in donzi matta unu dolore,
in donz'ispina unu lamentu acutu.
Lezes barbaras pro custa terra in luttu
da-e barbaros sempre cumandada:
a sedda e a isprone est domada, e si podian
nd' isperdian sa razza!
La jughen sempre istrazz'istrazza
piratas, galiottos, mercenarios,
prantan banderas populos varios
furisteris de cada zenia, messan fruttos de tancas,
binzas e livarios,
Semenan sale, fogu e tribullia.
domenica 19 aprile 2009
Lévi-Strauss ha compiuto cent'anni. Per questo, e oserei dire solo per questo, dopo decenni di oblio, si è tornati a parlare di lui. Claude Lévi Strauss, singolare figura di filosofo, antropologo, strutturalista, linguista, ha infatti la grave colpa, che condivide con un altro grande pensatore contemporaneo, anch'esso oscurato, Karl Polanyi, interessato particolarmente al versante economico, a una società che non sia, da questo punto di vista, né marxista né liberista, di non poter essere catalogato né di destra né di sinistra. Colpa che neanche i suoi cent'anni hanno potuto lavare se è vero che in questi mesi di celebrazioni tutto si è detto di lui tranne che fermarsi sulla parte più eterodossa e attuale del suo pensiero: il relativismo culturale.
Il relativismo senza aggettivi, filosofico, ha una lunga tradizione che va da Montaigne a Voltaire a Nietzsche all'empirio-criticismo di Mach e Avenarius per arrivare fino alle ultime conclusioni della fisica moderna. Il primo a trasferire questa concezione in campo sociale, politico ed etico è stato Oswald Spengler affermano che tutti principi morali e religiosi e tutti i valori hanno un significato solo nell'ambito e per la durata della civiltà che li ha elaborati e praticati.
L'apporto originale di Lévi-Strauss sta nell'aver considerato ogni cultura come un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti strettamente collegati fra loro (come in una lingua), per cui una qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si può cancellare o estrapolare dalle culture “altre” gli aspetti che non ci piacciono - che è l'arrogante pretesa che domina oggi in Occidente - senza modificare profondamente tutto il sistema e quasi sempre farne crollare l'impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intervento occidentale nelle società del cosiddetto Terzo Mondo e in quelle ancor più arcaiche e primitive le ha disgregate provocando sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e mostruosi e alla fine ha, di fatto, distrutto quelle civiltà. Come è avvenuto per l'Islam se, sotto la pressione ideologica e armata dell'Occidente, il ruolo della donna musulmana fosse omologato a quello che ha da noi.
Ma Lévi-Strauss rifiuta anche quella particolare forma dello storicismo che è l'evoluzionismo secondo il quale le società partendo dal semplice (o dall'apparentemente semplice) e andando verso il più complesso, tenderebbero a un unico fine e a un unico modello al cui culmine c'è, naturalmente, il modello di sviluppo occidentale quale è oggi. È assurdo, dice Lévi-Strauss, fare di una società «uno stadio dello sviluppo di un'altra società». Si tratta semplicemente di società diverse, che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella natura umana. Quelle tradizionali sono tendenzialmente statiche e privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito dell'efficienza economica e tecnologica. Invece le società “calde”, come le chiama Lévi-Strauss, a cui la nostra appartiene, sono dinamiche e scelgono l'efficienza e lo sviluppo economico a danno dell'equilibrio dato che «producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose contro le quali i “primitivi” si premuniscono e forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo».
Ed è qui che il discorso di Lévi-Strauss si fa attualissimo e diventa per noi particolarmente interessante. Per due motivi, sostanzialmente. Perché, a due secoli e mezzo dalla Rivoluzione industriale, usiamo constatare quale disagio acutissimo abbia provocato nelle nostre vite, in termini di stress, di angoscia, di tenuta nervosa, di depressione, di anomia, il forsennato dinamismo, l'assurda velocità, del nostro modello di sviluppo, rompendo oltretutto i rapporti fra gli uomini e gli stessi nuclei costitutivi dell'essere umano, privandolo dei suoi istinti, della sua vitalità, della sua essenza. E questa è la ragione principale del nostro antimodernismo e della nostra battaglia.
Ma c'è una ragione, per così dire “esterna”, che è quasi altrettanto importante. Per Lévi-Strauss, e per noi, non esistono “culture superiori”. Esistono solo culture diverse, ognuna col suo proprio senso. Per questo difendiamo con forza il principio dell'autodeterminazione dei popoli contro la pretesa dell'Occidente della “reductio ad unum”, cioè a se stesso, dell'intero esistente, col pretesto di una superiorità culturale che non è che una variante del razzismo classico, di nazistica memoria, peggiore perché più subdolo, più ipocrita e più devastante perché non si accontenta di conquistare territori e popoli, vuole prendere le loro anime (uno degli slogan con cui l'Occidente tenta di legittimare la sua presenza armata in Afghanistan è che dobbiamo «conquistare i cuori e le menti» degli afgani). Ma il rispetto delle altre culture non ha, per noi, solo radici di principio. L'omologazione del mondo ad un unico modello sarebbe mortale, nel senso letterale del termine. Perché come dice la saggezza popolare che abbiamo perduto «il sale della vita sta nella diversità»
venerdì 3 aprile 2009
dae Alberto Piccinini
Mark Ames, giornalista Usa, è l’autore di “Going Postal”, un libro forte e provocatorio che analizza puntigliosamente i massacri compiuti negli Usa sui luoghi di lavoro a partire dagli anni ‘80. Ames scopre in ogni storia concreta tutt’altro che l’inspiegabile follia, ma la logica di lavoratori “triturati” dalla trasformazione delle loro aziende nello stile della Reaganomics. Abbiamo chiesto a lui un commento sul massacro in Alabama, in occasione della pubblicazione italiana del suo libro, a fine mese, per le edizioni Isbn. ”E’ ancora presto per dire cosa è successo in Alabama, - ci ha detto - ma il motivo profondo va cercato nell’economia, dentro l’azienda dove quest’uomo si è suicidato.Io considero questa come un’altra battaglia di quella che è stata una vera e propria guerra di classe in America, durata trent’anni, fin da quando la Reganomics ha trasformato questo paese. Gli inquirenti, in Alabama, hanno ragione quando affermano che una parte dei motivi del massacro derivano dal fatto che il killer era un ‘impiegato scontento’, e sappiamo che la Reliable – l’azienda dove aveva lavorato – aveva iniziato un paio di settimane fa un programma di licenziamenti su larga scala. Questi licenziamenti hanno spaventato la comunità locale, che è già povera e disperata. Gli stati del sud come l’Alabama che sono quasi come mini-paesi del Terzo Mondo, dove le paghe sono basse, i sindacati non esistono o sono fortemente avversati, e dove enormi sgravi fiscali sono offerti alle aziende perchè si trasferiscano lì. In altre parole, dove i lavoratori sono sfruttati fino all’osso. Quel che è interessante a proposito di questo caso e sembra aprire un nuovo trend dentro il quadro di questa nuova Grande Depressione è il fatto che un uomo finanziariamente rovinato uccida la sua intera famiglia prima di togliersi la vita, come se non volesse che la sua famiglia debba affrontare non solo la vergogna, ma anche la generale devastazione economica.
La tua teoria a proposito dei massacri sul luogo di lavoro risale alla Reaganomics, e alla trasformazione delle relazioni umane e aziendali. Non credi che proprio questa crisi (ma anche l’avvento di Obama, e il nuovo clima culturale che porta con sé) cambino lo scenario?
Quando ho presentato il mio libro nelle librerie americane, qualche anno fa ormai, la domanda più comune che mi veniva posta era “quando finirà tutto questo?”. Non sapevo proprio cosa rispondere, a parte dire che probabilmente tutto sarebbe finito quando fosse accaduto un qualche tipo di evento apocalittico, come la Grande Depressione o una Guerra Mondiale. Con il collasso finanziario e con la nuova Depressione, sembra che il modello della Reaganomics stia vacillando, tanto da essere messo sotto accusa anche dallo stesso establishment politico e economico. In ogni caso, io resto scettico. I grandi interessi economici e i super-ricchi stanno combattendo come pazzi contro Obama, e di solito vincono loro. A differenza degli anni ‘30, inoltre, non c’è una forte contro-ideologia che possa rimpiazzare la Reaganomics. La sinistra negli Usa è troppo timida anche per usare la parola “socialismo”. Obama parla di “post-ideologia” e di “competenza”, ma per me è un’altra maniera di dire che l’ideologia corrente è ancora quella dominante.
Da quel che hai sentito in tv e sugli altri media, qual è lo stile nella reazione a questo massacro? Sta cambiando qualcosa?
Una cosa nuova c’è. Per la prima volta i media stanno cominciando a inserire questi massacri nel contesto dei licenziamenti, della cultura aziendale, dell’economia. Mi ricordo quando lo scorso novembre un ingegnere della Silicon Valley sparò al dirigente della sua azienda, e a due suoi colleghi, uccidendo il primo e ferendo gli altri due, tutti i titoli immediatemente sottolinearono il fatto che era stato licenziato e aveva perso un sacco di soldi. Ora che i media sono in uno stato di sofferenza anche economica, coi giornalisti che perdono il loro lavoro, è come se fosse più facile trovare una forma di identificazione con gli autori di questi massacri. Credo che un sacco di giornalisti licenziati abbiano sognato di uccidere i loro editori.
Un altra notizia, dalla Germania, ci parla di un massacro in una scuola. In Going Postal ti eri lungamente occupato di Columbine. In che senso i massacri a scuola sono legati a quelli che avvengono nei luoghi di lavoro?
Non conosco i particolari del massacro in quella scuola, ma sono sicuro che ci siano molte differenze. E’ chiaro che molti massacri che sono avvenuti nelle scuole europee sono stati ispirati proprio da Columbine, ed è esattamente quello che volevano gli autori di quel massacro. Nel loro videodiario avevano dichiarato esplicitamente: “Vogliamo iniziare una rivoluzione”. E così sono diventati “eroi” letteralmente per centinaia, migliaia e forse milioni di ragazzi sparsi nel mondo, molti dei quali appartenenti a famiglie della classe media. Ed è qualcosa alla quale sembra che nessuno voglia neppure pensare.
Potete trovare l’intero commento di Mark Ames sul sito:
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